Tadeusz Pankiewicz e l’importanza della sua farmacia nel ghetto di Cracovia.

(…) C’era gioia e disperazione: alcuni si rallegravano di essere scampati,altri erano impietriti dal dolore per la perdita dei loro cari che non sarebbero più tornati. Il rimorso tormentava chi era ancora lì (…) . Questo passo si trova in un libro che andrebbe letto e riletto, per la testimonianza, l’importanza  del messaggio e la grazia con cui arriva. 

Sembrerebbe un controsenso, perché questo testo, Il farmacista del ghetto di Cracovia, scritto dallo stesso farmacista, Tadeusz Pankiewicz, con una prima edizione del 1947 tagliata dalla censura, e poi con due successive, più complete, parla di nazismo e morte. Ma c’è davvero una gentilezza nei racconti e nelle descrizioni, nonostante il terrore che il nazismo ha portato, in questo caso, come ci dice il titolo del volume che ritroviamo pubblicato da Utet con prefazione dello storico Marcello Pezzetti, a Cracovia, in Polonia. 
 
La storia di Pankiewicz, morto nel 1993, ha dell’incredibile: quando in un quartiere di Cracovia, nel 1943, viene creato il ghetto ebraico, il farmacista ne diventa suo malgrado abitante. Non è ebreo, ma ha il suo esercizio lì, in quella piazza che è appena diventata il centro del ghetto, e lì decide di rimanere, lavorando ogni giorno con le sue tre collaboratrici, Irena Drozdzikowska, Helena Krywaniuk e Aurelia Danek-Czortowa, a cui ha dedicato il suo libro. 

 
Pankiewicz e i suoi aiuti non solo resistono a diversi tentativi di sgombero, a ordini di chiusura o trasferimento, non solo vendono farmaci e aiutano chi non se li può permettere, ma diventano un punto di riferimento fondamentale per chi abita il ghetto e ogni giorno ha a che fare col terrore, con la violenza dei nazisti, con l’incognita relativamente al destino, proprio e dei propri cari. Ogni giorno e ogni sera svariati personaggi di riuniscono in farmacia, e lì, Il farmacista e le sue assistenti prestano aiuto rischiando di mettersi nei guai, mandando lettere  e documenti che dal ghetto non potrebbero uscire, facendone entrare altri da fuori, portando messaggi.
Sapendo di andare contro alle regole, sapendo di poter andare incontro alla morte. Ma questo non ha fermato Pankiewicz, che ha visto deportazioni, esseri umani che difficilmente potevano dirsi tali dopo i trattamenti subiti, fucilazioni e tutto ciò che di peggio il nazismo ha portato, sino alla sua conclusione, sino allo smantellamento del ghetto. Sino al ritorno, via via, verso la vita.
 
 
Come dicevo all’inizio, Il farmacista del ghetto di Cracovia è scritto in maniera elegante, gentile, proprio come era il suo autore, a quanto pare. La sua testimonianza, questo diario arrivato a noi per non dimenticare ciò che è stato, è importante tanto quanto lo è stato il suo operato. E infatti, anche molti anni dopo la fine della guerra, sono state molte le persone che gli hanno scritto, che hanno voluto ringraziarlo per quello che ha fatto, per rivederlo, per ricordarsi di essere ancora vivi, nonostante tutto. 
 
Perché gli ebrei deportati, prima di esserlo, non sapevano a cosa andavano incontro, naturalmente le SS raccontavano loro di nuove destinazioni per vivere e lavorare in un posto diverso, e non verso un’atroce morte. Per questo ogni volta uomini e donne partivano con le loro cose, i loro oggetti. Credevano di andare altrove, o forse sapevano, ma non volevano crederci. Chissà. 
 
La giornata della memoria, come ogni anno, è stata celebrata pochi giorni fa, il 27 gennaio. Ma ci sono libri, come questo, che portano memoria ogni giorno, ogni anno. 
 
Tadeusz Pankiewicz
 
Il farmacista del ghetto di Cracovia
 
Traduzione di Irene Picchianti
 
Utet
 
Pagine: 276
 
Prezzo: 16,00 
 
 

Una risposta a “Tadeusz Pankiewicz e l’importanza della sua farmacia nel ghetto di Cracovia.

  1. L’ho letto poco fa … è importante soffermarsi su come viene descritto che persino gli ebrei che non avevano vissuto quelle atrocità, nell’apprendere le informazioni del farmacista, lo abbiano tacciato di esasperare i toni di ciò che evidentemente andava oltre le loro possibilità di immaginare che uomini come loro potessero essere così bestiali e subdoli.

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